RICHIESTA DI RETROCESSIONE
2 dicembre 1999
QUESITO
Un dipendente di ruolo inquadrato alla VII q.f. puo' chiedere di retrocedere al livello inferiore (VI q.f.)?.
Si precisa che il suddetto dipendente ò stato assunto con concorso pubblico alla VI q.f. con mansioni di ufficiale amministrativo, poi transitato alla VII q.f. con concorso interno, infine trasferito nell'area contabile. Si precisa che la richiesta di retrocessione viene effettuata per poi poter ottenere il part-time.
PARERE
Si trasmette, in allegato alla presente, il parere espresso dal Prof. Mario Napoli — Ordinario di diritto del lavoro nell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano — in merito al quesito postoci da codesto Comune. Si trasmette, inoltre, per opportuna conoscenza, copia della determinazione del Prefetto della Commissione di Coordinamento della Valle d'Aosta in merito ad un trasferimento, su domanda dell'interessato, a qualifica inferiore di quella ricoperta.
La prima questione da affrontare consiste nel reperire la fonte normativa regolativa del caso. Sebbene la materia delle mansioni del lavoratore sia oggetto di apposita previsione normativa sul pubblico impiego (art. 56 d.lgtvo n. 29 nelle varie stesure succedutesi), manca una norma espressa, relativa al pubblico impiego, che vieti il declassamento del lavoratore. Ciò significa che, per effetto della previsione dell'art. 2 d.lgtvo n. 29, la fonte normativa va ricercata all'interno del codice civile e delle leggi in materia di lavoro. Orbene l'art. 2103 c.c., nella formulazione introdotta dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è idoneo a regolare il caso di specie.
In base ad una lettura formalistica di tale testo occorrerebbe dare una risposta negativa al quesito.
Infatti, essendo consentito soltanto lo spostamento a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, in base alla ricostruzione dottrinale unanime e agli assetti giurisprudenziali, lo spostamento a mansioni rientranti in un livello d'inquadramento per il quale sia previsto una retribuzione inferiore è da considerarsi, di per sé, vietato. E' quindi da escludere quella equivalenza professionale che legittima gli spostamenti orizzontali all'interno della stessa qualifica, vietando, in tal modo, qualsiasi mobilità verso il basso. La previsione dell'ultimo comma, in base al quale ogni patto contrario è nullo, è idonea a sanzionare l'illegittimità dello spostamento anche se assistito dal consenso o, comunque, dall'acquiescenza del lavoratore.
Tale lettura della norma è pienamente accettabile e convincente, ma non è idonea a risolvere il caso di specie, che presenta delle peculiarità tali da costringere l'interprete a fornire una diversa lettura della norma.
Sono molti diffusi in dottrina i dubbi su una lettura formalistica della norma che sacrifichi gli interessi reali dei, lavoratori.(cfr. M. Brollo, La mobilità interna del lavoratore, in Commentario al Codice civile diretto da P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 1997, p.199 Tali dubbi concernono le ipotesi in cui sia lo stesso lavoratore ad avere un interesse a un declassamento. Le ipotesi trattate dalla giurisprudenza concernono due situazioni esemplari.
Innanzi tutto si ritiene che lo spostamento a mansioni inferiori sia legittimo in presenza di un'impossibilità a svolgere le mansioni di assunzione a seguito di una parziale invalidità del lavoratore. In questo caso, se non fosse ammessa la possibilità di essere adibiti a mansioni compatibili con le residue capacità di lavoro, si dovrebbe, a rigore, ammettere la legittimità della risoluzione del rapporto di lavoro per impossibilità sopravvenuta. La conseguenza che ne deriverebbe sarebbe che una norma posta a tutela del lavoratore si ritorcerebbe contro, in quanto impedirebbe una soluzione capace di far prevalere l'interesse alla conservazione del rapporto di lavoro rispetto ad un'impossibile tutela della professionalità. La tutela della professionalità del lavoratore, infatti, presuppone logicamente la sua possibilità, l'esistenza cioè del bene oggetto di tutela. Conseguentemente l'applicazione della norma è condizionata dalla possibilità dell'oggetto di tutela. In tal caso non si tratta di una lettura della norma che superi la lettera della legge, bensì di una conseguenza imposta dal limite logico che incontra il precetto legislativo.
Analogo ragionamento può essere svolto nell'altra situazione per la quale la giurisprudenza ha ritenuto non operasse la norma: la soppressione del posto di lavoro con la conseguente legittimità del licenziamento. Qui il limite è d'ordine giuridico, non logico. La tutela della professionalità presuppone che il posto di lavoro vi sia. Se, alla stregua delle regole che disciplinano la conservazione del posto di lavoro, il lavoratore può essere licenziato per riduzione di personale o comunque per giustificato motivo oggettivo, la legittimità dello spostamento a mansioni inferiori sarebbe consequenziale alla legittimità del possibile licenziamento. Infatti la norma che tutela la professionalità non può essere invocata allorquando il posto di lavoro viene a mancare. In ogni caso, giuridicamente l'interesse alla conservazione del posto è prevalente rispetto all'interesse alla tutela della professionalità. Questo indirizzo giurisprudenziale, propugnato dalla dottrina (v. M. Napoli, La stabilità reale del rapporto di lavoro, Angeli, Milano, 1980, p. 329) è ora avallato dal legislatore con l'art. 4, comma 11 della 1. 23 luglio 1991, n. 223, che consente, nell'ambito delle procedure di mobilità, di adibire il lavoratore a mansioni inferiore a seguito di accordo sindacale (Sull'assetto della giurisprudenza v. M. Brollo, Le modificazioni oggettive: il mutamento di mansioni, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, vol. Il, Rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di C. Cester, Giuffrè, Milano, 1998, p. 1102).
ll caso di specie non rientra in questi due gruppi di situazioni per le quali l'art. 2103 non è di ostacolo allo spostamento a mansioni inferiori. Ma è fuor di dubbio che l'interesse del lavoratore sia un interesse meritevole di tutela.
Nel caso di specie non viene in questione la volontà dell'Ente di utilizzare lo jus variandi a danno della professionalità del lavoratore. Né l'amministrazione chiede il consenso o comunque l'avallo del lavoratore a una propria decisione unilaterale, in spregio alla norma che proclama la nullità dei patti contrari. Non v'è da parte dell'amministrazione alcuna volontà di introdurre una regolazione della disciplina delle mansioni in contrasto con l'impianto legislativo. Nel caso di specie, poi, non vi sono altri ostacoli di carattere legale che impediscono la presa in considerazione, dell'interesse del lavoratore. L'amministrazione non deve creare ad hoc un posto di lavoro per soddisfare l'interesse del lavoratore. La questione nasce esclusivamente sulla base di una richiesta del lavoratore, libera e per niente coartata. La richiesta del lavoratore non è affatto oggetto di un capriccio o di una volontà emulativa, ma risponde a un bisogno reale del lavoratore ,il passaggio al part time, fortemente favorito dall'ordinamento.
Si tratta di stabilire, allora, se la ratio della disposizione dell'art. 2103 impedisca realmente il soddisfacimento di tale interesse. A tal fine è necessaria un'interpretazione dell'art. 2103 che, senza alterare gli interessi e i valori in gioco, consenta l'accoglimento della richiesta del lavoratore senza violazione della legalità da parte dell'amministrazione.
Il significato della disposizione dell'ultimo comma dell'art. 2103 a mente del quale ogni patto contrario è nullo è coglibile solo se essa va strettamente collegata alla previsione del 1 ° comma. La norma esprime due contenuti precettivi da osservare. In base al primo, è colpito da nullità insanabile l'eventuale patto, contenuto nel contratto individuale o nel contratto collettivo, mediante il quale si attribuisse al datore di lavoro un potere di spostamento al di là del principio di equivalenza professionale. Si rientra nella previsione dell'ultimo comma in tutte le ipotesi in cui una regolamentazione contrattuale disciplini spostamenti unilaterali dei lavoratori al di là dei limiti consentiti dall'ordinamento, autorizzando, ad esempio, gli spostamenti verso il basso decisi unilateralmente dal datore di lavoro. Il precetto dell'ultimo comma è così finalizzato a dare effettività al contenuto precettivo del 1° comma. Poiché l'art. 2103 contiene una disposizione inderogabile, la clausola contrattuale (il patto) che alteri questo assetto è sanzionato con la nullità, come avviene per tutte le clausole contrattuali contrarie a norme inderogabili.
In secondo luogo, la previsione in base alla quale ogni patto contrario è nullo è idonea a sancire l'illegittimità dell'atto unilaterale di spostamento a mansioni non equivalenti, anche se vi sia il consenso del lavoratore. L'assetto normativo dell'art. 2103, infatti, sarebbe sostanzialmente violato, non solo in presenza di un atto unilaterale, ma anche se il lavoratore vi presti acquiescenza, cosa che si verifica allorquando sia stipulato un patto modificativo delle mansioni che nasconda un atto unilaterale del datore di lavoro. In questo senso la norma è simile alla formula più esplicita dell'art. 15 della stessa legge che più correttamente mette sullo stesso piano, ai fini della nullità, sia l'atto che il patto. Ma il patto colpito da nullità è unicamente quello che consente al datore di lavoro di esercitare un potere o diritto di spostamento in contrasto con i limiti legali concernenti la determinazione dell'oggetto del contratto: mansioni d'assunzione o quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Ne deriva che rimane fuori dalla portata oggettiva della norma, non solo la modifica peggiorativa delle mansioni in caso di invalidità o di soppressione del posto, ma anche l'atto o il patto che non provengono da una iniziativa unilaterale del datore di lavoro. La legge, infatti, non vuole che il consenso del lavoratore serva da copertura per operazioni sostanzialmente unilaterali decise e perseguite dal datore di lavoro.
Nel caso di specie, esclusa ogni volontà dell'amministrazione di spostare unilateralmente per proprie esigenze il lavoratore, ed escluso in fatto che il consenso del lavoratore sia richiesto per legittimare una decisione unilaterale e che sia quindi oggettivamente non genuino, lo spostamento a mansioni inferiori appare legittimo, perché non finalizzato a ledere l'interesse alla conservazione della professionalità acquisita dal lavoratore per effetto di una volontà del datore di lavoro. Affinché la peculiarità del caso possa emergere in trasparenza, invece di fare riferimento al consenso successivo del lavoratore, è opportuno che l'atto di spostamento alle nuove mansioni avvenga in risposta ad una precisa domanda del lavoratore da cui possa apparire chiaro: a) l'iniziativa del lavoratore finalizzata a chiedere lo spostamento a nuove mansioni; b) l'interesse apprezzabile del lavoratore al suddetto spostamento. Ciò dovrebbe essere sufficiente a garantite l'amministrazione da un possibile, anche se improbabile, successivo ripensamento del lavoratore tendente a far valere la nullità dello spostamento. E' da ritenere, inoltre, che la nullità ex u.c. dell'art. 2103 non possa essere fatta valere da chiunque, come avviene per la nullità dei contratti in generale, ma esclusivamente dal soggetto titolare dell'interesse sotteso alla norma, che è esclusivamente il lavoratore.
In ogni caso la tesi qui sostenuta può avvalersi di precisi indirizzi della Cassazione , in generale ispirati al criterio del male minore, che ammettono il mutamento in pejus delle mansioni su richiesta del lavoratore per soddisfare un proprio interesse: Cass. 1-12-1988, n.6515 in Massimario di Giurisprudenza del lavoro,1989, con nota di Riccardi; Cass.24-10-1991, n.11297, in Giurisprudenza italiana, 1992, I, 1, 1493 con nota di Piccinini; Cass.2-11-93, n.10793, in Rivista italiana di Diritto del lavoro,1994, II. 707; Cass. 15-3-1995, n. 2990, in Giurisprudenza italiana,1995, I, p.1634. Non è da tacere, tuttavia, che una parte della dottrina critica tali orientamenti (v. C. Pisani, La modificazione delle mansioni. Angeli, Milano, 1996, p.170), anche se in modo non convincente.
Poiché il caso di specie rimane oggettivamente fuori dall'art. 2103, nulla osta a che una fattispecie generale e astratta sia prevista dal contratto collettivo di riferimento. Ciò può avvenire con due tecniche. In base alla prima, il contratto collettivo potrebbe disciplinare ex novo il trasferimento a domanda su mansioni corrispondenti a qualifiche inferiori. In base alla seconda, si potrebbe inserire una nota a verbale in corrispondenza della normativa sulle mansioni, in cui le parti esprimono avviso comune sull'irrichiamabilità dell'art. 2103 cc: "nel caso di domanda del lavoratore a seguito dell'impossibilità a svolgere le mansioni originarie o per soddisfare altri interessi apprezzabili del lavoratore".
Nel senso di cui sopra si esprime, pertanto, il parere richiesto. La Commissione dí Coordinamento, nella seduta del 18 aprile 1984, ha adottato a seguente determinazione:
Vista la deliberazione della Giunta Regionale indicata in oggetto, con la quale si trasferisce il dipendente da un posto di autista meccanico (4° livello) ad un posto di Operaio qualificato (3° livello) con decorrenza dal 1° maggio 1984;
Rilevato che il provvedimento è stato assunto su domanda dell'interessato con richiamo al l'art.69 della legge regionale 28 luglio 1956 n.3 e successive modificazioni in virtù del quale è possibile il trasferimento dei dipendenti a posti diversi da quelli occupati, purchè appartenenti allo stesso "gruppo regionale";
Visto che con legge regionale 10 maggio 1983 n. 32 le qualifiche sopra citate sono state collocate in due livelli diversi (4° e 3°) e che il passaggio da una qualifica superiore ad una inferiore non è previsto da apposita norma;
Considerato infine che non è richiamata alcuna legge sostanziale sostegno del trattamento economico previsto:
ai sensi del combinato disposto degli artt:46 dello Statuto e 60 della legge 16 Maggio 1978, n.196 - chiarimenti al riguardo.